mercoledì 16 settembre 2015

Richard Flanagan - Festival della Letteratura di Mantova 2015




L'orrore e l'amore possono condividere uno stesso spazio senza annullarsi a vicenda? O necessitano addirittura l'uno dell'altro per essere raccontati? Secondo Richard Flanagan, ospite al Festival della Letteratura il 13 settembre scorso, non si può parlare dei drammi della guerra senza la speranza dell'amore, il testo non funziona da solo.
Flanagan, di origine tasmana, ci narra senza difficoltà la genesi del suo ultimo romanzo, appena tradotto in italiano per Bompiani (traduzione di Elena Malanga) , La strada stretta verso il profondo nord (The Narrow Road to the Deep North, 2013), vincitore del Man Booker Prize del 2014.

Trama: Dorrigo Evans, medico e generale australiano a comando di un disperato campo di lavoro nella giungla della Birmania della seconda guerra mondiale, cerca in ogni modo di mantenere in vita i suoi uomini, costretti a lavorare per una folle impresa e distrutti dalla fame e dalle malattie. Ma è l'amore impossibile per Amy, sposata a suo zio a non abbandonarlo mai, e a mettere a repentaglio ogni suo rapporto affettivo.

Questo romanzo intimo e inevitabile, come dice l'autore, narra una tragedia umana svoltasi durante gli orrori della seconda guerra mondiale, nel 1943, quando l'imperatore giapponese, decide di avviare un folle progetto per salvare le sorti della guerra, che i giapponesi ormai stanno perdendo: invadere l'India dalla Birmania. Ma la Birmania è lontana dalle sue linee di rifornimento, quindi, per far arrivare uomini e mezzi in quella giungla dalle piogge perenni, decide di far costruire una linea ferroviaria che da Bangkok porti fino in Birmania. Un'impresa titanica già con mezzi attrezzati e tempi sensati, ma che si vuole concludere in poco più di un anno e avvalendosi solo del lavoro forzato di migliaia di prigioneri di guerra coreani, americani e australiani. L'impresa costerà la vita a “più persone delle parole contenute nel mio libro”, come lo definisce l'autore, tra le 100.000 e le 200.000 persone, non sapremo mai il numero esatto.
Tra i sopravvissuti a quella verrà conosciuta come la 'ferrovia della morte', anche il padre dell'autore stesso, che narra al figlio le strazianti e surreali vicende poi contenute nel romanzo.


Flanagan, come ci spiega al Festival, non voleva affatto scrivere questo romanzo, lo aveva rimandato e rinviato per anni, ma sentiva una certa premura, una pressione che lo portava verso questa storia. Una responsabilità alla scrittura, alla quale lui, già noto romanziere, sentiva di non potersi più sottrarre. “Sentivo, che se non avessi scritto questo libro, non avrei più scritto nient'altro, la mia carriera si sarebbe fermata.”
Riscrive la bozza del libro per ben cinque volte, gettandola ogni volta, insoddisfatto.
Poi, nel 2002, si trova a passeggiare lungo il Sydney Harbour Bridge e gli torna in mente una storia d'amore, sentita anni prima. É la storia di un migrante lettone, vissuto in Tasmania, che era partito per la guerra, abbandonando il suo paesino di origine e la moglie. Alla fine della guerra, quando finalmente poté tornare a casa, la sua casa non c'era più, non c'era più il suo paesino e neanche sua moglie, presumibilmente morta. L'ex-soldato non si da per vinto e passa i prossimi due anni alla ricerca dell'amata moglie, prima di arrendersi e migrare in Tasmania. Qui riesce a farsi una nuova vita e una nuova famiglia. Molti anni dopo, si ritrova a passeggiare casualmente per Sydney e vede, in mezzo alla folla, la moglie lettone che credeva morta. Ha pochi secondi di tempo per decidere come reagire, se andarle incontro e salutarla, o continuare per la sua strada e lasciare che le cose procedano per il corso ormai intrapreso.
Questa, decise Flanagan, era la chiave che gli mancava per scrivere il suo romanzo. Si fiondò nel primo bar che gli capitò sotto tiro, chiese al barista una penna e inizio a scrivere sulle tovagliette del bar. Ci metterà dodici anni poi per concludere la sua scrittura.
“Se vuoi scrivere del male, dell'oscurità, devi scrivere anche della speranza. Devi offrire anche la verità della speranza, che è l'essenza dell'essere umano, e che nella sua forma migliore è espressa nell'amore.”

Ecco che la sua testimonianza di guerra si coniuga con una storia d'amore.

Il senso del dovere che lo spinse a prendere in mano la penna deriva anche dall'incomunicabilità di certi orrori, dall'impossibilità dei sopravvissuti di raccontare la loro storia, la mancanza di parole adeguate per farlo, per farsi capire. Questa impossibile comunicazione viene espressa molto bene nel romanzo, da un generale, che non riesce a far capire alla sua famiglia, anni dopo la guerra, come mai è così importante piegare i vestiti con le pieghe verso l'interno, secondo le regole di campo dei giapponesi. E il suo orrore lo porta a ripegare personalmente gli abiti dei suoi figli, che lo stanno a guardare, incapaci di comprendere.

Kundera: “La battaglia della libertà contro il potere è la stessa della memoria contro la dimenticanza.”

Le ferite subite dai prigioneri di guerra non sono soltanto fisiche, ma sopratutto psicologiche, che col tempo anziché marginarsi si allargano sempre di più e si propagano sulla famiglia, sui figli. Sono ferite cosmiche, che passano di generazione in generazione e a volte non guariscono mai.
Il libro però non parla solo dei prigioneri australiani, parla anche dei generali giapponesi incaricati a sorvegliare i lavori e dirigere il campo. Alla domanda come abbia fatto a procurarsi i racconti di questi personaggi “dell'altra sponda” l'autore risponde dicendo che in realtà siamo meno diversi di quello che pensiamo e ci possiamo vedere riflessi negli occhi del nemico. Sono le circostanze a rendere un uomo un torturatore.
Se avesse scritto solo parlando delle vittime, come spiega Flanagan, avrebbe creato un senso di martirio, di vittimismo, che non fa che dividere le persone tra quelle con un senso morale maggiore o minore. “Ma quella è proprio la strada che ha condotta alla costruzione della ferrovia, o ad Auschwitz.”

“I prigioneri erano quelli fortunati, perché hanno soltanto dovuto soffrire; le guardie invece, loro hanno dovuto infliggere quelle sofferenze e vivere per sempre con quella vergogna.”

Si parla anche dell'importanza delle illusioni, creatrici di speranze. Il medico Evans, si rende conto di non essere in grado di fare quello che va fatto, le sue cure sono futili, ma alimentano le speranze, e allora il teatrino delle illusioni diventa l'unica cosa in grado di tenerli ancora in vita.

Flanagan conclude con una breve spiegazione a proposito del titolo del romanzo, una citazione da Basho, importante poeta giapponese del '600. Questo perchè il libro vuole mostrare, oltre al punto culturale più basso al quale il Giappone abbia mai potuto scendere, anche quello più alto e la bellezza della quale è sempre stato capace. 

Flanagan, mentre firma il mio segnalibro. Non ho trovato un libro da farmi firmare in tempo...




Recensione:

Questa non è una lettura per chi ha lo stomaco sensibile. Bisogna dirlo. Non è stato per nulla semplice completare questa lettura, interrotta più volte dalle scene molto crude e oltre il limite del tollerabile. Ma purtroppo queste scene non sono frutto di una fantasia dai gusti splatter, e in memoria e in onore delle persone che hanno sofferto simili angherie, e per l'autore che non si è tirato indietro di fronte a questo non facile compito, sono andata avanti, fino in fondo a questa drammatica storia. La poesia delle parole di Flanagan crea un forte contrasto, sicuramente ricercato, con il dramma che deve rappresentare. E contrasta anche fortemente la storia d'amore, così centrale a questa vicenda, intollerabile senza. Sono rimasta colpita dalla capacità dell'autore di inoltrarsi nella mente dei suoi personaggi, e non nasconderci nulla del loro animo, dall'egoismo del prigioniero affamato, incapace di condividere il proprio riso con un amico che è rimasto a bocca asciutta, alla lucida follia del generale giapponese che vive i grandi momenti della vita attraverso gli haiku di Basho. 
Leggendolo ci si rende conto dell'importanza di un libro come questo, un libro spiacevole, che fa sentire sulla pelle la pioggia monsonica interminabile della giungla e gli odori della tenda ospedale.
Notevole.




lunedì 7 settembre 2015

Saghe che non ho finito e chissà se finirò mai


Sono una grande appassionata di saghe fantasy, sono state il mio ingresso nel mondo della lettura da piccola e mi faccio sempre catturare dai personaggi e le situazioni, quindi sento sempre il bisogno di andare a leggere come la storia va a finire. Ma a volte capita, ed è comunque raro, che una saga mi lasci indifferente o non mi appassioni abbastanza da farmi continuare nella lettura, poi passa del tempo e finisce che non la riprendo più in mano perchè non mi ricordo più niente... Certo, esiste Wikipedia, dove si potrebbero controllare le trame dei libri precedenti, ma francamente, chi ha voglia di farlo?
Ecco quindi alcune saghe che ho lasciato perdere e ormai ho scordato buona parte della trama:

 - Eragon (Christopher Paolini)

trama: In un mondo fantastico medievalizzante, il giovane, Eragon trova un uovo di drago nel bosco, e da là iniziano i suoi guai. Assieme al suo drago e a un saggio mentore pratico delle arti magiche, dovrà imparare a combattere per diventare anche un Cavaliere dei Draghi e sopravvivere in un mondo ricco di insidie e pericoli.

Qua la lettura risale a molti anni fa, quando questa saga andava molto di moda. Ricordo bene che l'unico personaggio che mi interessase anche solo un poco era il fratello di Eragon, ma la storia non mi interessava molto. La trovavo piuttosto banale, ricordava troppo 'Il signore degli anelli' e mi stufai abbastanza. Ricordo vagamente d'aver letto anche il secondo libro, ma solo perchè fino a qualche mese fa occupava molto spazio nella mia libreria, altrimenti l'avrei rimosso completamente.

Letti: 2/4

 - Ciclo di Bitterbynde (Cecilia Dart-Thornton)

trama: Una creatura muta e deforme ci narra la sua storia e il suo difficile percorso per ritrovare la propria identità perduta, lasciando la Torre dove ha sempre vissuto, in un mondo dominato da creature magiche  e pericolose e affascinanti navi che solcano i cieli 

Per quel che riguarda questa serie, potrei ancora considerare l'ipotesi di riprenderla in mano, mi manca da leggere solo l'ultimo libro e il primo mi era piciuto così tanto da perdonare la debolezza del secondo volume. (recensione qua: La ragazza della torre)
Nel secondo volume tutto l'aspetto romantico della storia viene enfatizzato troppo per i miei gusti e il personaggio principale assume delle caratteristiche piuttosto standard, perde insomma ciò che lo rendeva così intrigante nel primo volume.

Letti: 2/3

 - Harry Dresden (Jim Butcher)

trama: Harry Dresden offre i suoi servizi come detective e mago, una combinazione unica nella cupa città di Chicago, dove la polizia non disdegna i suoi servizi quando ha a che fare con casi paranormale e irrisolvibili. E il mondo della malavita magica è ancora più pericoloso di quella normale....

Questa serie di urban fantasy mi era stata consigliata anni fa e nonostante la mole (sono ormai 15 volumi), mi aveva incuriosito abbastanza da acquistare il primo volume. Purtroppo non mi è piaciuto per niente il protagonista, il mago-detective Dresden, e non ho provato nessun interesse per gli eventi della storia, al punto che non vedevo l'ora di finire il libro per metterlo via. (Non riesco a interrompere una lettura, è più forte di me). 
Da altre recensioni che ho letto so che questo è il volume più debole della serie e che bisogna continuare, perchè i prossimi volumi migliorano notevolmente. Ma ho una sola vita. E questi sono ancora quattordici libri. Quindi...

Letti: 1/15 (in corso)

 - Outlander (Diana Gabaldon)

trama: Claire Randall, ex infermiera durante la seconda guerra mondiale, è in vacanza con il marito, poco dopo la guerra, tra gli altipiani scozzesi. Ma un cerchio di pietre magiche la riporterà indietro nel tempo, fino al 1743 e lei dovrà adattarsi alla difficoltà di un mondo così diverso dal suo e di un popolo, quello scozzese, che vede in lei, britannica fin nelle ossa, una nemica.

Anche in questo caso vale parzialmente la ragione precedente, ovvero, troppi libri! (O comunque troppo lunghi, da 700 pagine l'uno circa, nell'edizione inglese).
Ho letto con molto interesse il primo volume di questa serie, spinta dall'uscita della serie tv, ma mi ha lasciato così turbata che non sono affatto sicura di voler continuare con la lettura. Dovrei fare una recensione di quel libro, ho molte cose da dire... 
Ad ogni modo, il secondo volume si svolge a 20 anni di distanza dalla fine del primo, e già questo gap temporale mi fa persistere non poco. L'ambientazione però è così ben fatta...

Letti: 1/8 (in corso)

 - Saga degli Shadowhunters (Cassandra Clare)

trama: La quindicenne Clary si accorge di vedere persone e cose, a Manhattan, che nessun altro nota. Quando poi sua madre scompare improvvisamente verrà catapultata in un mondo parallelo fatto di licantropi, vampiri e creature di ogni sorta e controllato dagli Shadowhunters, guerrieri angelici con il compito di proteggere il mondo dalle orde infernali.

Se ho iniziato a leggere questi libri è tutta colpa di Booktube e delle booktuber americane (di età media tra i 16 e 20 anni...). Anche in questo caso si tratta di un urban fantasy, anche in questo caso i libri sono tanti, ma soprattutto non mi piace come scrive l'autrice e non sopporto metà dei personaggi (si salva solo Simon, che con le sue battute mi ha aiutato a continuare nella lettura). Sono arrivata fino al terzo volume, che avrebbe dovuto essere l'ultimo, ma evidentemente visto il successo della serie è stato deciso di estenderla per altri tre. Per quel che mi riguarda finisce a Città di Vetro e non mi interessa minimanete cosa succede dopo. 
Adesso è in preparazione una serie tv tratta da questa saga, che dovrebbe riparare ai danni inflitti dalla versione filmica del primo libro (atroce, degli attori pessimi, una regia che fa paura, pure la musica non andava).

Letti: 3/6

Forse prima o poi riprenderò in mano una o più di queste saghe, ma nel frattempo ho molto altro da leggere...

giovedì 3 settembre 2015

Recensione #05 When We Were Orphans - Kazuo Ishiguro


Non c'è niente da fare, la scrittura di Ishiguro mi incanta sempre.
Questo suo romanzo, uscito nel 2000 e candidato al Man Booker Prize, ci riesce con un'atmosfera cupa e misteriosa, che ti fa stare col fiato sospeso fino alla fine. (In Italia è uscito per Einaudi col titolo di "Quando eravamo orfani", traduzione di Susanna Basso.)
Christopher Banks, detective di fama nella Londra degli anni '30, ci racconta la sua storia, attraverso continui salti temporali, tra la sua infanzia nel quartiere degli stranieri a Shanghai, e il suo presente, mentre fa la conoscenza di Sarah, una rampante damigella che non vuole starsene con le mani in mano ma "fare qualcosa" per essere utile in questa Europa del 1937 in cui tutti parlano già di guerra ma non sanno come fermarla.
L'infanzia di Christopher lo tormenta, a causa dell'irrisolto caso della scomparsa dei suoi genitori e il suo conseguente trasferimento nel Regno Unito. Riuscirà l'ormai celebre detective a risolvere il caso più intimo e importante della sua vita? E quanto sarà disposto a sacrificare per andare fino a fondo della storia?

L'affascinante atmosfera della Shanghai degli anni '30 non poteva non coinvolgermi in questa lettura dal respiro un po' noir, ma ho sicuramente fatto fatica a muovermi in un ambiente a me così estraneo, sia geograficamente che storicamente. Sicuramente una minima conoscenza di storia avrebbe aiutato molto la lettura, comunque molto scorrevole.
Tra le critiche fatte a questo romanzo si trova in primo luogo l'inaffidabilità del narratore, dovuta soprattutto all'età alla quale risalgono i suoi ricordi cinesi, ma devo dire che invece ho trovato vincente questa narrazione, così incerta e annebbiata, i ricordi si comportano proprio così, spesso non sono affidabili, spesso vanno reinterpretati in maniera diversa a distanza di anni. 
Lo consiglio agli amanti di Ishiguro, ma anche agli amanti delle ambientazioni storiche in Asia. 

Recensione #04 Camera Oscura - Simonetta Agnello Hornby

Questo è stato il mio approccio con questa autrice palermitana e purtroppo ha deluso le mie aspettative.
Il breve racconto rielabora in forma romanzata uno scambio di lettere tra Lewis Carroll, il notissimo autore di "Alice nel Paese delle Meraviglie" e alcune famiglie borghesi di Oxford durante gli anni '60 dell'Ottocento. L'autore, famosissimo già all'epoca, teneva una cattedra di matematica all'università ed era appassionato di fotografia. Per le famiglie che contavano di Oxford era un'onore far fotografare le proprie figlie dall'autore, nonostante l'ambigua situazione in cui si trovavano queste ragazzine. La scioltezza con cui i vittoriani si prestavano a queste sedute, lasciando le bambine da sole con Dodgson (nome vero del professore), al punto che venivano soprannominate le "piccole amiche" dell'autore, mi lascia davvero perplessa, in particolare poi considerando che dal 1867 l'autore inizio a ritrarre le bambine anche nude.
In questo racconto la Hornby rielabora la storia di una di queste bambine e il rapporto sviluppatosi con Dodgson, rapporto bruscamente interrotto dai genitori di lei e che la segnerà per il resto della sua vita. La ragazzina, infatuata dell'autore soffrirà per anni a causa di una mancata spiegazione per l'interruzione del rapporto.
Per quanto lo sfondo della vicenda e il suo protagonista siano davvero intriganti e inquietanti, trovo che questo racconto sia troppo breve, apra delle strade che non approfondisce e perda delle occasioni. (Un peccato ad esempio non narrare più in dettaglio i processi di produzioni delle fotografie, allora ancora in fase sperimentale e molto 'casalinga'). Il risultato è una storia apparentemente superficiale e un po' forzata, come a voler raccontare questa storia a tutti i costi, senza però avere un'idea precisa di cosa si vuole raccontare.
Spero davvero che l'autrice offra molto di più in altre sue opere.